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13.10.2023

Intervista a Federica Foglia

Intervista a Federica Foglia

Di seguito riportiamo l’intervista alla regista Federica Foglia, in merito al suo Film Negativo/Positivo.

 

Che tipo di lavoro hai fatto sui materiali d’archivio per il tuo film?

 

Tratto queste immagini ritrovate con una tecnica nota come Emulsion Lifting, ovvero il processo attraverso il quale si solleva a mano l’emulsione fotografica dalla base di poliestere, per poi riposizionarla su un’altra base. È un processo analogo al collage, lavoro a strati con una materia molto fragile. Ogni singola striscia di pellicola viene “spellata” a mano, risultando in un piccolo ammasso gelatinoso e informe, l’immagine è ancora li…impressa nella gelatina, soltanto che dopo essere stata scollata…mi resta tra le mani liquefatta. Da li inizio a spianarla di nuovo sulla base di un’altra pellicola, picchiettando gentilmente per non distruggere il materiale fragile. Oltre a essere molto delicato, il 16mm è anche un formato molto piccolo da gestire. La cosa più simile che mi viene in mente – è il processo che la carta velina subisce quando viene incollata con la colla vinilica, un passo falso e potrebbe strapparsi, o incollarsi male. Cerco di creare livelli sovrapposti di questa emulsione (carta velina) per produrre delle sovrimpressioni fatte a mano, mi piace formare giustapposizioni visive, mi aiuta a capire meglio il mondo. 

Certo, sarebbe molto più semplice creare le sovrimpressioni tramite un programma di post-produzione, creando una immagine a più livelli in digitale. Sicuramente sarebbe più veloce, per creare un secondo di film, ovvero 24 fotogrammi, spesso impiego 2/3 ore, come per l’animazione. Non a caso questo tipo di lavoro viene spesso chiamato direct-on-film-animation / animazione diretta su pellicola.

Nonostante sia conscia della possibilità di poter creare queste sovrimpressioni in digitale, per me è fondamentale l’approccio tattile e artigianale all’immagine. Lavorare con le mie mani, sulla materia viva, è un processo analogo alla scultura. Mi permette di pensare l’immagine con le mani e non con gli occhi. È un tipo di lavoro che predilige il senso tattile a quello visivo. Mi sento molto affine a chi lavora ai decoupage fatti in casa o anche ai lavori all’uncinetto.

 

Nel film, così come nella tua intera produzione cinematografica, l’effimero ha un forte valore estetico e simbolico. Ci racconti meglio che significato assumono per te i filmati d’archivio che, per natura, sono così fragili?

 

Come dicevo prima, da anni ormai ho adottato una metodologia di lavoro materialista che mi porta a lavorare direttamente sulla superficie di queste pellicole riciclate, scarti di film destinati all’oblio. I cosiddetti film orfani, perché ormai hanno perso ogni legame con il loro creatore originale. Colleziono questo tipo di scarti vagabondi perché anche io mi sento un po’ cosi, in cerca di casa. Cerco di ricollocarli sullo schermo dal quale erano temporaneamente stati estromessi. Film ai margini a cui cerco di riassegnare una posizione predominante.

Le immagini d’archivio, soprattutto quelle senza una chiara provenienza, contengono in se il potere iconico della poesia. Sono dei frammenti di verità’ disconnessi dal loro contesto originale, ed è proprio in questa natura sconnessa che risiede la loro potenza. Scavando, frammento dopo frammento, cerco di assemblare queste immagini spesso non appartenenti alla stessa pellicola, associarle, creare dei nuovi significati, rianimandole.

Guardo all’archivio come spazio di collaborazione e in costante movimento. Non un archivio statico, dogmatico, inaccessibile ma un archivio fluido, in divenire e ridivenire. Un archivio in cui il passato e il presente non esistono in una temporalità lineare, unidirezionale o cronologica bensì circolare, atemporale e omni-direzionale. Il passato e il futuro su una linea loop continuativa, passando per il futuro tornando al passato in circolo costante, dove a ogni passaggio un nuovo significato nasce dalle immagini archiviate e de-archiviate. In questo senso mi sento molto vicina ad Ariella Azoulay che definisce l’archivio non come un luogo ma come una soglia. Una porta sempre aperta che promuova un approccio compartecipato tra cittadini, artisti e istituzioni nel processo di archiviazione e dis-archiviazione. Non più un archivio blindato dove la memoria storica è affidata a pochi, ma un punto di contatto e incontro.

 

Quali titoli di film found footage e/o film sperimentali sono stati importanti per la tua formazione?

 

Sicuramente tutti i film di Cécile Fontaine (soprattutto Japon Series), regista francese brillante a cui devo molto, lei è stata una delle prime registe che ho trovato quando ho iniziato la mia ricerca sulla tecnica di Emulsion Lifting. Dopo essermi imbattuta nei suoi film ho pensato che in fondo quello che stavo cercando di fare io con la celluloide non era poi così assurdo e che questa regista prima di me ci era riuscita… Anche se non ci siamo mai incontrate, spero un giorno di potermi confrontare con lei.

Poi c’è la brillante Vivian Ostrovsky, il suo U.S.S.A. è un capolavoro, anche se il mio stile differisce dal suo (al momento) ho trovato nel suo approccio al montaggio una fonte inesauribile di ispirazione. Abigail Child con The Future is Behind You mi ha lasciata sbalordita, utilizzando found-footage risalente al 1930 ha creato un film e un montaggio così intricato ma al tempo stesso così onesto e intimo, da materiale d’archivio altrimenti anonimo. La mia pratica artistica deve molto a queste registe, guardando alla loro filmografia mi sento incoraggiata, legittimata, mi rendo conto che si puo fare questo tipo di cinema. Poi Gariné Torossian, e il suo bellissimo Girl from Moush a cui ritorno spesso, Frédérique Dévaux Exile Series, Tina Takemoto, Carolee Schneemann, Louise Borque L’Eclat du Mal a cui mi sento particolarmente legata a livello estetico. Potrei continuare all’infinito!